Nessun Paese che intenda avere
un futuro davanti a sé, può permettersi di abbandonare i giovani, ma
se c'è un Paese al mondo che dovrebbe addirittura coccolare i propri
ragazzi, questo è l'Italia: per la semplice ragione che, da noi, i
giovani sono merce rara.
Negli anni Ottanta e, ancor più,
negli anni Novanta sono nati pochissimi italiani, facendo segnare il
record mondiale di infertilità: dal Duemila il trend si è un po'
invertito, soprattutto grazie ai figli degli immigrati, tanto che
oggi ci sono nove province italiane (Asti, Brescia, Cremona, Lodi,
Mantova, Modena, Piacenza, Prato e Reggio Emilia) dove uno su
quattro, tra i nuovi nati, è figlio di immigrati.
Ciò non è stato sufficiente,
però, a cancellare quel ventennio di “buco” demografico, che
sarà destinato a caratterizzare a lungo le sorti dell'Italia: i
giovani nati in quegli anni, infatti, sono relativamente pochi,
soltanto 10 milioni, in pratica la metà di quelli nati tra il 1955 e
il 1975.
Il fatto paradossale, però, è
che per quanto pochi siano, questi ragazzi risultano essere quelli
che più hanno difficoltà a trovare un'occupazione: su di loro pesa,
infatti, il “tappo” delle generazioni più numerose, destinate, soprattutto grazie alla Fornero, a restare al lavoro ancora per parecchi anni.
Per intenderci: un italiano nato
nell'anno del baby boom (1964), rischia di dover lavorare fino a 67
anni, ovvero fino al 2031, ma il figlio di quel baby-boomer nato
nell'anno di minimo demografico (1994) non potrà certo aspettare di
aver compiuto i 37 anni, per avere finalmente un lavoro, magari
precario.
Al contempo, quei “pochi”
giovani tra vent'anni dovranno portare sulle proprie spalle il peso
del pensionamento di chi è nato negli anni Sessanta: una faticaccia
che richiederebbe, quantomeno, esperienze professionali precoci e di
qualità, tali da permettere loro di raggiungere un discreto
benessere economico.
E invece? Invece questi ventenni
si stanno laureando, seguendo decine di corsi e sostenendo esamini
che non permettono loro di approfondire nessuno specifico campo di
studi: fuori li aspetta un autentico far west, dove se sono fortunati
sommano tante piccole attività, per poi alla prima occasione vedersi
sostituiti da qualche precario ancora più disperato di loro.
Che fare? Una seria riforma
universitaria capace di rafforzare la capacità degli studenti di
elaborare, già durante gli studi, idee vendibili sul mercato del
lavoro, potrebbe ad esempio spingere una quota di diplomati a
completare la propria formazione.
A tale riguardo: non sappiamo
mai bene come spendere i fondi europei per la formazione? Si lanci,
allora, un piano straordinario per far lavorare i giovani italiani
all'estero, una sorta di Erasmus del lavoro, attraverso il quale le
aziende europee possano offrire stage lavorativi ai ragazzi dai 25
anni in su.
C'è da scommetterci, saranno in
molti quelli che torneranno da questa esperienza con una carica
positiva e con conoscenze linguistiche e professionali meno
approssimative: non è tutto, ma sempre meglio delle chiacchiere a sproposito del
governo Letta.
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