Per alcuni potrà anche
essere consolatorio liquidare con l'appellativo di “gufi” tutti
coloro (non solo ex comici ma anche autorevoli economisti) che, già
da diversi anni, affermano che quella che stiamo vivendo è la più
grande crisi mai occorsa da secoli, perché è globale e perché è
basata sul debito: un indebitamento di tutti con tutti, causato
innanzitutto da un eccesso di promesse, essendo comunemente risaputo
il fatto che ogni promessa è debito.
Tutto inizia quando una
persona comunica di avere un bisogno e, il fatto stesso che lo
comunichi, significa che non è in grado di soddisfarlo
autonomamente, tanto da rivolgersi ad altri per chiedere aiuto, il
che vale a dire, direttamente o indirettamente esprimere un
desiderio: sta tutto qua l'inghippo, perché il bisogno è un fatto
reale e concreto, mentre il desiderio rappresenta solo la sua
espressione psicologica.
Le due cose, lungi dal
coincidere, il più delle volte non sono anzi nemmeno collegate, come
dimostrano l'esempio della moda e quello della pubblicità, che fanno
desiderare cose di cui, nella maggior parte dei casi, non abbiamo
affatto bisogno: così, uno ha la necessità di coprirsi ma, per
qualche oscuro motivo, desidera proprio una giacca di Armani perché gli è stato fatto credere che, grazie a quell'oggetto, avrebbe
soddisfatto sia un bisogno che un desiderio.
Le promesse hanno,
comunque, qualcosa che le accomuna ai desideri: vengono formulati
entrambi attraverso il linguaggio, sono soltanto “parole”:
viviamo in un modello di società in cui i desideri vengono
alimentati da promesse fatte in anticipo, e poi gestiti e soddisfatti
da altre promesse, al punto che promesse assolvono al subdolo compito
di spostare nel tempo le risposte.
Questo slittamento,
questo calcolato ritardo nel soddisfare le domande, crea alla fine
debito il quale, venendo a sua volta spostato in avanti e
“rifinanziato” con nuove promesse, si espande trasformandosi in
un indebitamento etico, politico, culturale, psicologico, economico, totale ed
esponenziale: l'esempio più evidente è ogni giorno sotto i nostri
occhi, basta avere la voglia di aprirli e guardare.
Dal dopoguerra ad oggi
l'Italia sembra essere costantemente impegnata in un'infinita,
indeterminabile, assemblea di condominio in cui, a cadenze regolari,
viene chiesto ai condomini di votare per il rinnovo
dell'amministrazione: tutti si lamentano del vecchio amministratore,
lo ritengono inadeguato, se non addirittura incapace o, peggio, colluso per
interessi personali.
Ma siamo in un Paese
conservatore, perennemente spaventato dal cambiamento, dove gli
abitanti fondamentalmente se ne fregano che le promesse vengano effettivamente mantenute, anche a costo di lamentarsi all'infinito
dell'amministratore condominiale: perché tutto questo? Forse, come diceva Benito
Mussolini, perché “governare gli italiani non è difficile, è inutile”.