martedì 2 settembre 2014

Fanatismo islamico e paure occidentali

Nessuno, credo, avrebbe mai l'ardire di contestare la gravità di ciò che sta accadendo nella striscia di Gaza, in Iran e in Iraq: a tale proposito c'è addirittura chi, come i repubblicani statunitensi, ritiene che questa sorta di “cancro islamico” debba essere curato attraverso una radicale operazione (militare), oppure chi, con un ardito parallelo, si è persino spinto a paragonare la crisi mediorientale ad un altro flagello che sta preoccupando di questi tempi, come l'ebola.

A volte, purtroppo, non è sempre vero che l'unica cosa di cui occorre avere paura sia la paura stessa: queste crisi sono vere, ed altrettanto vere sono le minacce che esse rappresentano, anche se inizia ad insinuarsi qualche dubbio sul fatto che la diffusione di certe visioni apocalittiche non rischi, alla fine, di paralizzare la produzione di possibili soluzioni in risposta a queste nuove sfide.

Questo è anche il pensiero di Michael Brenner, professore di Politica Internazionale presso l'Università di Pittsburg (Pennsylvania), convinto del fatto che l'opinione pubblica americana -formata dalle versioni hollywoodiane della storia, piuttosto che da una conoscenza diretta della stessa- percepisca l'avanzata dei jihadisti dello Stato Islamico come la travolgente scena dell'attacco di Aqaba nel film Lawrence d'Arabia (con Peter O'Toole), oppure quello sferrato dalle orde di beduini del Mahdi (Laurence Olivier) in Khartoum.

In questo modo si rafforza, sempre più, l'idea di trovarci in presenza di un nemico assetato di sangue, fanatico, demoniaco e forse inarrestabile: ed è a questo punto che la percezione diventa apocalittica, ripercuotendosi negativamente sulla capacità di reagire e, soprattutto, nella scelta di mettere in campo risposte non necessariamente militari.

Recentemente, il noto comico statunitense Jon Stewart ha mandato in onda una sorta di “Blob” delle ultime notizie sull'avanzata degli jihadisti trasmesse -in un crescendo di catastrofismo- dalle principali tv americane, commentando “Ma se davvero le cose stanno così, se riteniamo che questi siano davvero inarrestabili, che senso ha mettersi a discutere come reagire? Arrendiamoci!”.

Immaginate cosa sarebbe accaduto da noi, se quelle stesse parole fossero state pronunciate da un noto “comico” genovese? La verità è che i media attirano la nostra attenzione sulla “crisi del giorno”, martellandoci in modo ossessivo, per poi farla sparire una volta superata la fase acuta, dimenticando che la ragioni che hanno provocato lo scoppio della crisi rimangono da affrontare, non con le armi ma con la politica.

Sarebbe forse troppo chiedere ai politici, ai media e ai "fruitori" di notizie di fare uno sforzo per un maggior approfondimento, se non altro per una conoscenza non episodica od epidermica di quanto succede, visto che sarebbe quantomeno opportuno seguire con più continuità l'evolversi delle crisi, riflettendo anche su come, in molti casi, si sia al fine riusciti a venirne a capo.

Magari provando a rispondere a domande di questo tipo: in che modo l'America Latina si è liberata dalla dicotomia dittatura/guerriglia che per parecchi decenni ne aveva contraddistinto la storia politica? Quali risoluzioni hanno stabilizzato l'Albania che, solo fino a pochi anni fa, sembrava destinata a riversare sull'Italia centinaia di migliaia di immigrati? Per quale motivo in Indonesia, il più popoloso Paese a maggioranza islamica, non prevale il fondamentalismo? Come è avvenuto il passaggio dalla dittatura alla democrazia a Taiwan e in Corea del Sud?

Di certo, maggiori riflessioni ed approfondimenti su temi come questi, potrebbero essere d'aiuto e fornire preziose indicazioni su come affrontare le crisi attuali, nonché rappresentare un valido contributo per sfatare le profezie apocalittiche, pericolose in quanto tendenti il più delle volte all'auto-affermazione.

lunedì 1 settembre 2014

Il voto? Per gli italiani non è più un dovere civico

Quali sono le “virtù civiche” più apprezzate dagli italiani? Una risposta a questa domanda ha provato a darla il quotidiano La Stampa che, con l'indagine LaST (Laboratorio sulla Società e il Territorio) realizzata da Community Media Research in collaborazione con Intesa San Paolo, ha cercato di delineare un insieme di comportamenti socialmente accettabili, tanto da costituire una misura del grado di appartenenza ad una comunità civica da parte degli italiani.

Poiché dalla classifica scaturisce che azioni quali “gettare rifiuti in luoghi pubblici” (96,3%) e “compiere atti vandalici come forma di protesta” (91,6%), sono quasi unanimemente annoverate tra le più inaccettabili, ne consegue che valori come la sensibilità ambientale e il rispetto della proprietà privata rappresentano, per i nostri connazionali, due aspetti fondamentali per definire le civiche virtù.

Non molto distanziati, troviamo altri due comportamenti poco tollerati, quali il “fingersi ammalati per non andare al lavoro” (78,3%) e l'“evadere o eludere le tasse” (72,3%): anche se, per circa un quarto degli italiani, in determinate circostanze entrambi questi modi d'agire potrebbero avere delle giustificazioni quantomeno plausibili.

Sul medesimo piano, vi è un altro gruppo di azioni scorrette per le quali gli italiani dimostrano, però, di possedere un minor grado d'insofferenza: "denigrare l'avversario politico" (53,2%), "bloccare i lavori di interesse pubblico" (52,0%), oppure "farsi raccomandare" (51,3%).

Ciò soprattutto in considerazione del fatto che fenomeni quali la politica urlata di questi ultimi anni, scelte incomprensibili come lo scempio in Val Susa per la realizzazione della Tav, oppure il malfunzionamento del mercato del lavoro, hanno certamente influito nel rendere ragionevoli anche siffatti comportamenti: infine, proprio in fondo alla classifica, si colloca la partecipazione alle elezioni.

Solo un preoccupante 34,8% degli italiani, infatti, considera oggi questo diritto democratico una “virtù civica”, alla quale sia opportuno ottemperare: un ulteriore campanello d'allarme, nel caso ve ne fosse bisogno, del distacco nei confronti della politica che serpeggia in tutto lo Stivale.

Uno spiccato ed intransigente “senso civico” appare, d'altro canto, più diffuso tra le donne, tra i cittadini più adulti (over 50 anni), tra i disoccupati e tra chi ha un basso livello di studio, mentre, al contrario, un maggior grado di permissività e tolleranza è stato riscontrato tra i maschi, le generazioni più giovani (under 34 anni) e tra chi è in possesso di un titolo di studio medio-alto.

Infine, dall'indagine LaST, condotta lo scorso mese di giugno su un campione rappresentativo della popolazione italiana con età superiore ai 18 anni, emerge che tra i residenti del Nord (soprattutto Nord Est) vi sarebbe un maggior apprezzamento per le “virtù civiche”, rispetto a quanti vivono nel Centro-Sud.