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lunedì 1 settembre 2014

Il voto? Per gli italiani non è più un dovere civico

Quali sono le “virtù civiche” più apprezzate dagli italiani? Una risposta a questa domanda ha provato a darla il quotidiano La Stampa che, con l'indagine LaST (Laboratorio sulla Società e il Territorio) realizzata da Community Media Research in collaborazione con Intesa San Paolo, ha cercato di delineare un insieme di comportamenti socialmente accettabili, tanto da costituire una misura del grado di appartenenza ad una comunità civica da parte degli italiani.

Poiché dalla classifica scaturisce che azioni quali “gettare rifiuti in luoghi pubblici” (96,3%) e “compiere atti vandalici come forma di protesta” (91,6%), sono quasi unanimemente annoverate tra le più inaccettabili, ne consegue che valori come la sensibilità ambientale e il rispetto della proprietà privata rappresentano, per i nostri connazionali, due aspetti fondamentali per definire le civiche virtù.

Non molto distanziati, troviamo altri due comportamenti poco tollerati, quali il “fingersi ammalati per non andare al lavoro” (78,3%) e l'“evadere o eludere le tasse” (72,3%): anche se, per circa un quarto degli italiani, in determinate circostanze entrambi questi modi d'agire potrebbero avere delle giustificazioni quantomeno plausibili.

Sul medesimo piano, vi è un altro gruppo di azioni scorrette per le quali gli italiani dimostrano, però, di possedere un minor grado d'insofferenza: "denigrare l'avversario politico" (53,2%), "bloccare i lavori di interesse pubblico" (52,0%), oppure "farsi raccomandare" (51,3%).

Ciò soprattutto in considerazione del fatto che fenomeni quali la politica urlata di questi ultimi anni, scelte incomprensibili come lo scempio in Val Susa per la realizzazione della Tav, oppure il malfunzionamento del mercato del lavoro, hanno certamente influito nel rendere ragionevoli anche siffatti comportamenti: infine, proprio in fondo alla classifica, si colloca la partecipazione alle elezioni.

Solo un preoccupante 34,8% degli italiani, infatti, considera oggi questo diritto democratico una “virtù civica”, alla quale sia opportuno ottemperare: un ulteriore campanello d'allarme, nel caso ve ne fosse bisogno, del distacco nei confronti della politica che serpeggia in tutto lo Stivale.

Uno spiccato ed intransigente “senso civico” appare, d'altro canto, più diffuso tra le donne, tra i cittadini più adulti (over 50 anni), tra i disoccupati e tra chi ha un basso livello di studio, mentre, al contrario, un maggior grado di permissività e tolleranza è stato riscontrato tra i maschi, le generazioni più giovani (under 34 anni) e tra chi è in possesso di un titolo di studio medio-alto.

Infine, dall'indagine LaST, condotta lo scorso mese di giugno su un campione rappresentativo della popolazione italiana con età superiore ai 18 anni, emerge che tra i residenti del Nord (soprattutto Nord Est) vi sarebbe un maggior apprezzamento per le “virtù civiche”, rispetto a quanti vivono nel Centro-Sud.

sabato 8 marzo 2014

Otto Marzo, se vedo una mimosa la rivendo

Se l'Otto Marzo ha da essere, che sia contro la marginalità di quelle donne che, facendo le cose senza avere soldi, devono farle un po' più piccole, un po' più svelte, un po' più faticose, così mi hanno detto parecchie donne che conosco, che se vedono una mimosa se la rivendono: il problema vero, oggi, è di sopravvivere sulla scena di un mondo che ti fa pagare anche quello che non consumi.

Foto di Alessandro Barcella
Vediamo di non essere ipocriti, l'universo maschile occidentale ha considerato per millenni le donne come parte dell'arredo domestico, roba loro, differenti solo per la tendenza a fare figli: poi venne il Sessantotto, l'Otto Marzo, e gli uomini hanno cominciato controvoglia a festeggiarle con il rituale collettivo del mazzo di mimose.

E parecchie di loro stavano magari pensando: fa freddo, ma perché non mi ha regalato un paio di guanti?

Altre donne, in altri ambienti, si ritrovavano, al telefono, oppure incontrandosi per festeggiare, conteggiando quelle che ritenevano essere state le loro importanti conquiste: del fatto che avevano un rapporto uterino con la storia, storico con l'utero, intimo con la vita e con la morte, schizzinoso con la volgarità e dionisiaco col sesso.

Alla perenne conquista del mondo, ancor diverse dagli uguali ma pari ai diversi: dopo tre giorni le mimose avevano fatto il marcio nell'acqua e l'odore era di camposanto femminile: gli uomini riprendevano a considerarle chi con terrore, chi con cieca dedizione, come sempre ad esercitarsi in varie sociologie su “noi” e su “loro”.

Sarebbe proprio una bella cosa se, oggi, il rito collettivo dell'Otto Marzo potesse finalmente trasformarsi nel momento in cui entrambi i “generi”, sforzandosi per superare ogni forma di steccato ideologico e culturale, provassero concretamente a mescolarsi per cambiare i destini di questo mondo cinicamente asessuato e sempre più alla deriva.

sabato 1 febbraio 2014

Ecco perché i figli di Bhutan sono i più felici del mondo

Cos'è che ci rende felici? Un nuovo amore? Il denaro? Quanto denaro? Ebbene, secondo alcuni ricercatori statunitensi, se provassimo a tracciare su un grafico le curve della felicità e della ricchezza, le due linee continuerebbero a crescere alla stessa velocità, intersecandosi al raggiungimento di una cifra che si aggira attorno ai 2.000 dollari (1.500 euro circa) mensili.

Una volta raggiunto questo traguardo e una volta superata la quota 2000, la curva della felicità diventa quasi piatta, anche nel caso quella della ricchezza continuasse a salire: ad ogni aumento del reddito, infatti, non corrisponderà più alcun aumento della felicità, quasi a conferma di quel vecchio proverbio che recita “Non sono i soldi a fare la felicità”.

Come nel caso di quei vincitori di somme ingentissime alla lotteria, che si sono rovinati e poi ritrovati, in tempi piuttosto brevi, in una condizione economica molto più miserabile di quella pre-vincita: in pratica, questa ricerca sostiene che, nella maggior parte dei casi, a rendere felici le persone, non è tantissimo denaro, bensì una quantità sufficiente a farci superare una certa soglia di soddisfazione.

Anche se potrebbero sembrare discorsi banali, questo tipo di comportamenti vengono studiati in modo approfondito da quella branca dell'economia che viene definita “della felicità”, da Richard Layard, che per un certo periodo di tempo è stato consigliere del primo governo di Tony Blair, a Bruno Frey dell'Università di Zurigo.

Ora, seppur non è del tutto chiaro e definito che cosa ci possa rendere veramente felici, è d'altra parte abbastanza evidente cosa non ci dà la felicità: la mancanza di un lavoro, il rischio di perdere un lavoro, la negazione di un futuro per i nostri figli, le cartelle di Equitalia, le pensioni d'oro, il signoraggio delle banche e, soprattutto, essere governati da una classe politica del tutto incompetente ed indecente.

In questi termini, non è certo una rivelazione che la ricerca della felicità sia sancita addirittura nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, oppure, senza andare troppo lontano, anche nella nostra Costituzione, quando parla del “pieno sviluppo della persona umana” nell'art. 3.

Dunque, la felicità è un nostro sacrosanto diritto, di cui spesso si preferisce non parlare, come per una sorta di timore o di ingiustificato pudore: eppure, nel Bhutan, un piccolo Stato asiatico che si trova tra Cina ed India, la misura della ricchezza viene calcolata utilizzando il principio del benessere interno lordo, in base al quale la ricchezza delle persone consiste nel numero delle relazioni umane che queste riescono ad intrattenere.

Ecco perché i figli di Bhutan sono i più felici del mondo: in quel lontano e piccolo Paese, infatti, si registrano esperienze di vita sorprendenti e momenti di grandissima solidarietà, grazie ai quali questa comunità ha imparato a compararsi sempre con quelli che stanno peggio; regola aurea cui far riferimento quando ci sentiamo insoddisfatti di come vanno le cose, assieme ad un altro vecchio adagio delle nostre parti, per il quale non occorre neppure scomodare il governo del Bhutan, e cioè che chi trova un amico, trova un tesoro.

mercoledì 21 agosto 2013

Se il mondo fosse un villaggio di 100 abitanti

Solo pensare, soltanto per un momento, di poter catturare in un'unica fotografia le principali caratteristiche dell'intera umanità (quasi 7 miliardi di persone), sarebbe un'autentica follia.

Ma se... attraverso l'impiego dei dati statistici attuali, provassimo a ridurre l'insieme dei nostri simili ad un villaggio di soli 100 abitanti? Come saremmo? Vediamolo insieme.

Se il mondo fosse un villaggio di 100 abitanti, innanzitutto 70 di noi sarebbero adulti e 30 bambini, in 32 respirerebbero aria inquinata, mentre 68 quella pulita.

Ogni anno, per ogni abitante deceduto, nel villaggio ne nascerebbero 2, pur se soltanto 1 di loro potrà vantare, in futuro, un grado d'istruzione superiore, mentre 99 non ce l'avranno, visto che soltanto in 7 possediamo un computer, contro 93 che sono senza.

Anche perché 20 di noi abitanti il villaggio globale consumano l'80% dell'energia a disposizione, mentre i restanti 80 ne consumano solo il venti per cento.
Infatti, soltanto nelle case di 24 c'è l'elettricità, poiché agli altri 76 la corrente non arriva per nulla.

Di più: mentre 50 di noi non hanno una fonte garantita di cibo e, pertanto, soffrono sempre, o per lunghi periodi, la fame, ce ne sono altri 20 denutriti, di cui uno sta morendo d'inedia.

Solo per 30 fortunati tra noi le cose, sotto questo aspetto, vanno più che bene: hanno cibo a sufficienza, tanto che la metà di loro sono, addirittura, in sovrappeso.

L'acqua, invece, è pulita e sicura per 83 di noi, mentre gli altri 17 rischiano quotidianamente un'infezione da salmonella; qui, il cosiddetto “sesso forte”,  non è rappresentato dagli uomini (48), bensì dalle donne che sono in maggioranza (52), con un orientamento sessuale etero, per 90 di noi, mentre i restanti 10 si sono dichiarati omosessuali.

La nazionalità dei villani appare così rappresentata: 61 asiatici, 13 africani e 13 americani, 12 europei e, infine, 1 abitante proveniente dall'Oceania.

Altro che razzismo: all'interno della comunità globale soltanto 30 individui hanno il colorito roseo, mentre gli altri 70 sono di tutti i colori, fuorché bianchi.

Siamo, in maggioranza (33), di religione cristiana, ma con un alto numero di seguaci di altre fedi, oppure di atei (24), seguiti da 19 islamici, 15 induisti, 6 buddisti e 5 spiritualisti.

Le lingue parlate sono, per 17 di noi il cinese, per 9 l'inglese, per 8 l'hindi, per 4 l'arabo, per 6 il russo e, per altri 6, lo spagnolo, mentre i rimanenti 50 individui parlano, ognuno, una lingua diversa da queste.

Ciò detto, è bene sapere che 86 di noi sanno leggere, mentre solo in 14 non sono in grado di farlo, anzi, 48 di noi non possono parlare o agire secondo coscienza, perché rischiano molestie, prigione, torture o la morte; se è vero che 80 di noi non hanno paura, in 20 vivono col terrore di morire per bombardamenti, mine, stupri o rapimenti da parte di gruppi terroristici.

Un'ultima cosa: per rendere questo villaggio un posto più equo, ci sarebbe bisogno di un po' di denaro per tutti: peccato, però, che soltanto 6 di noi ne possiede il 59%, altri 74 il 39%, mentre gli ultimi 20 ne condividono un misero 2%.

Siete contenti di abitarci? Se sì, in quale di questi abitanti vi riconoscete?