Nessuno, credo, avrebbe
mai l'ardire di contestare la gravità di ciò che sta
accadendo nella striscia di Gaza, in Iran e in Iraq: a tale proposito
c'è addirittura chi, come i repubblicani statunitensi, ritiene che questa sorta
di “cancro islamico” debba essere curato attraverso una radicale
operazione (militare), oppure chi, con un ardito parallelo, si è
persino spinto a paragonare la crisi mediorientale ad un altro
flagello che sta preoccupando di questi tempi, come l'ebola.
A volte, purtroppo, non è sempre vero che l'unica cosa di cui occorre avere paura sia la
paura stessa: queste crisi sono vere, ed altrettanto vere sono le minacce che esse
rappresentano, anche se inizia ad insinuarsi qualche dubbio sul fatto che la diffusione di certe visioni apocalittiche non rischi, alla fine, di
paralizzare la produzione di possibili soluzioni in risposta a queste
nuove sfide.
Questo è anche il
pensiero di Michael Brenner, professore di Politica Internazionale
presso l'Università di Pittsburg (Pennsylvania), convinto del fatto
che l'opinione pubblica americana -formata dalle versioni
hollywoodiane della storia, piuttosto che da una conoscenza diretta
della stessa- percepisca l'avanzata dei jihadisti dello Stato
Islamico come la travolgente scena dell'attacco di Aqaba nel film
Lawrence d'Arabia (con Peter O'Toole), oppure quello sferrato dalle
orde di beduini del Mahdi (Laurence Olivier) in Khartoum.
In questo modo si
rafforza, sempre più, l'idea di trovarci in presenza di un nemico
assetato di sangue, fanatico, demoniaco e forse inarrestabile: ed è
a questo punto che la percezione diventa apocalittica,
ripercuotendosi negativamente sulla capacità di reagire e,
soprattutto, nella scelta di mettere in campo risposte non
necessariamente militari.
Recentemente, il noto
comico statunitense Jon Stewart ha mandato in onda una sorta di
“Blob” delle ultime notizie sull'avanzata degli jihadisti
trasmesse -in un crescendo di catastrofismo- dalle principali tv americane,
commentando “Ma se davvero le cose stanno così, se riteniamo che
questi siano davvero inarrestabili, che senso ha mettersi a discutere
come reagire? Arrendiamoci!”.
Immaginate cosa sarebbe
accaduto da noi, se quelle stesse parole fossero state pronunciate da
un noto “comico” genovese? La verità è che i media attirano la
nostra attenzione sulla “crisi del giorno”, martellandoci in modo
ossessivo, per poi farla sparire una volta superata la fase acuta,
dimenticando che la ragioni che hanno provocato lo scoppio della
crisi rimangono da affrontare, non con le armi ma con la politica.
Sarebbe forse troppo
chiedere ai politici, ai media e ai "fruitori" di notizie di fare
uno sforzo per un maggior approfondimento, se non altro per una
conoscenza non episodica od epidermica di quanto succede, visto che sarebbe
quantomeno opportuno seguire con più continuità l'evolversi delle
crisi, riflettendo anche su come, in molti casi, si sia al fine
riusciti a venirne a capo.
Magari provando a
rispondere a domande di questo tipo: in che modo l'America Latina si
è liberata dalla dicotomia dittatura/guerriglia che per parecchi
decenni ne aveva contraddistinto la storia politica? Quali
risoluzioni hanno stabilizzato l'Albania che, solo fino a pochi anni
fa, sembrava destinata a riversare sull'Italia centinaia di migliaia
di immigrati? Per quale motivo in Indonesia, il più popoloso Paese a
maggioranza islamica, non prevale il fondamentalismo? Come è
avvenuto il passaggio dalla dittatura alla democrazia a Taiwan e in
Corea del Sud?
Di certo, maggiori
riflessioni ed approfondimenti su temi come questi, potrebbero essere
d'aiuto e fornire preziose indicazioni su come affrontare le crisi
attuali, nonché rappresentare un valido contributo per sfatare le
profezie apocalittiche, pericolose in quanto tendenti il più delle volte all'auto-affermazione.
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