Comunque stiano le cose,
un fatto è certo: il sistema che fa da riferimento alla cosiddetta
“arte contemporanea” può -a ragione- definirsi un'organizzazione
“perfetta”.
Questo, perlomeno, è
quanto sostiene il finanziere Francesco Micheli, nella sua
introduzione ad un libro di recente pubblicazione (Investire
nell'arte, di Claudio Borghi Aquilini).
Si tratterebbe, stando a
quanto scrive Micheli di “Una macchina colossale in grado di
determinare valutazioni iperboliche anche per artisti che si
affacciano per la prima volta sul mercato”.
Una vero e proprio
bulldozer spinto da strategie di marketing e retto su un'alleanza tra
le grandi case d'aste, i direttori dei principali musei, critici
d'arte, fondi d'investimento specializzati nel settore, riviste,
collezionisti miliardari e, infine, le grandi gallerie, sempre più
simili a multinazionali dell'arte.
All'interno di questo
poco edificante cornice -è il caso di dirlo- gli artisti ricoprono
il ruolo di vere star mediatiche, oggetti del desiderio di
un'oligarchia globale, disposta a sborsare cifre folli pur di avere
nel proprio portafoglio opere che rappresentano uno status symbol.
Il sistema non ammette
battute d'arresto e deve sempre sfornare nuove star: come nel caso di
Rudolf Stingel, artista altoatesino, i cui prezzi alle recenti aste
sono subito schizzati, come da copione, oltre il milione di dollari.
Artisti come principi
azzurri, o eroi sbucati dal nulla, come in una fiaba d'altri tempi.
Dalle fiabe, però, ci si
aspetterebbe sempre un lieto fine, mentre attorno a quella dell'arte
contemporanea qualcuno inizia a porre qualche legittimo dubbio: che
ne sarà di queste impressionanti valutazioni economiche, da qui a
20-30 anni?
L'allarme, in questo
caso, è stato lanciato dalle pagine del New York Times, che ha preso di mira Damien Hirst, uno degli artisti simbolo delle
valutazioni folli, che si è trovato per la prima volta a doversi
difendere.
Il New York Times,
infatti, lo accusa di aver perso il conto dei suoi “spot painting”,
tele di tutte le dimensioni tutte dipinte solo con dei pallini
colorati.
A margine di tutto ciò,
bisogna altresì prendere atto che le grandi case d'aste hanno ormai
trasformato la figura del collezionista in un vero e proprio
“compratore seriale”, rincorso in ogni angolo del pianeta, che
non sa più scegliere per gusto o cultura, limitandosi viceversa a
mettere la propria firma a sette zeri su opere che la “macchina”
perfetta ha già scelto per lui.
Anche per questo, in
fondo, c'è chi si augura che -prima o poi- la “bolla” possa
scoppiare: per gli amanti dell'arte “vera” si tratterebbe proprio
di un bel finale.